La storia del vino ligure (parte II)

La storia del vino ligure (parte II)

La cronaca del domenicano Padre Nicolò Calvi afferma che nel 1531 il vino era la produzione più importante per Taggia. Un commercio che garantiva 9001000 scudi di introito all’anno. E non manca di segnalare l’esportazione di vino in Inghilterra, perdurante nel 1507. Come tutti i taggesi, il Calvi conosceva le proprietà del vino. A proposito della terra dell’Albareto di proprietà del suo convento, sita in un luogo piuttosto elevato, sconsiglia l’impianto di viti: il vino restava acido perché il posto era troppo freddo. C’è ancora il moscatello ? Il vitigno si trova ancora, certo. Ma non in quantità sufficiente per una produzione da DOC. Il clima è cambiato. Non più limpido, secco e generoso tale da ottenere un vino dolce di tipi meridionale e mediterraneo. La vite ha perso terreno nelle valli di Taggia e Bussana, dove si erano favoriti l’olivo prima e poi i fiori. Le malattie della vite nell’Ottocento hanno decimato le antiche vigne, nonostante la buona resistenza dei moscati. Ma qualcuno che si occupa di moscatello c’è ancora. E magari, al modo antico e tradizionale, ne mescola la produzione assieme a quella di altri vitigni. L’aroma del moscatello, fruttato e muschiato, ci è regalato da un grappolo allungato, con acini tondi e dorati, con la “piga” (macchia) all’estremità. ‘La caratata’ del 1531: una conferma della vite allora più importante dell’olio Nel 1531 il governo genovese impone una “caratata”. Cos’è ? Un’indagine territoriale compiuta a fini fiscali. La quale dà molte informazioni in merito alla natura produttiva dei territori genovesi interessati. E allora sono importanti le informazioni per gli ambiti del Ponente ligure. Si viene a sapere se erano manchevoli, autosufficienti o ricchi (tanto da esportare) di olio, di vino e di frutta. Se si osserva l’odierna gestione delle campagne della Liguria di Ponente, i risultati sono sorprendenti. Infatti dove ora trionfa l’olivo, prosperava la vite. I territori di Porto Maurizio, Taggia e Santo Stefano al Mare producono vino sovrabbondante, tanto da poterlo esportare. Anche la podesteria di Triora, con il suo capoluogo a 30 km.dal mare, non è da meno, con l’autosufficienza produttiva. Il contributo viene dalla media valle Argentina e dalla coltivazione di vigneti in montagna.

Il sommelier del Papa racconta i vini liguri del XVI secolo La prima guida enologica ragionata d’Italia. E’ il coppiere del Papa Paolo III che parla, Sante Lancerio. Paolo III conosceva la Liguria. Nel 1538 aveva stretto la pace di Nizza tra Carlo V e Francesco I. Poi, assie me all’imperatore e ad Andrea Doria, si era fermato ad Oneglia. E ne aveva conosciuto gli amabili vini bianchi. Così il coppiere aveva scritto che il vino della Riviera di Genova era molto buono, delicato e piacevole d’estate. Veniva trasportato via mare e, levato di barca, poteva irrobustirsi nel gusto. Taggia è ricordata, per il suo buon moscatello. E così Oneglia. E così i vini sia bianchi che rossi, anche se erano meglio i bianchi. Si nomina il Razzese di Bussana e Castellaro, che il Papa di solito non beveva. Anche se poi poteva farsene una zuppa d’inverno. Oppure in tarda estate “alla stagione del fico buono”, per accompagnare proprio il fico, “gran nutrimento per i vecchi”. Nel 1522 il papa Adriano Florensz, l’ultimo papa non italiano prima di Giovanni Paolo II, aveva pranzato in Liguria, durante il viaggio di avvicinamento a Roma. I vini erano generosi: bianchi limpidissimi, rosati e neri, dolci e secchi, amabili ed aspri. Vengono subito in mente le varietà DOC della Riviera di Ponente, imperniate sui paglierini Vermentino e Pigato, e sui Rossi, come l’Ormeasco ed il Rossese… L’ufficio del vino’ e le gabelle a Sanremo: dal 1550 al XVII secolo Sanremo centro di mercato del vino. Da non credere, poiché oggi è soprattutto mercato dei fiori. Nel XVI secolo c’era il fondaco (magazzino) del vino al molo. Si applicava la gabella (tassa) sulle vendite. A fine Cinquecento si parla di vino nero e di vino “bruscho”. Quest’ultimo è un vino giovane, nostralino, un po’ acerbo…come si potrà leggere più avanti. Si importa però: dalla Corsica, tanto quanto il bianco ed il brusco mazzacano di Napoli.

A metà Seicento resiste la divisione in vino bianco e vino nero, ma si distingue pure il moscatello: pochi barili, venduti ad alto prezzo. Il vino di Sanremo e dintorni è “buono e mercantile, senza difetto alcuno”. Più bianco o più nero ? Un rapido calcolo, fra i barili commerciati nel 1649: 104 erano di vino nero, più pregiato, forse sul tipo dell’odierno rossese…solo 77 di bianco. I “libri di Sanità” dal Seicento in avanti citano spesso il commercio vinicolo quale elemento portante dell’economia marittima sanremese.

Toponomastica: le tracce dell’antica viticoltura Dal Cinquecento in avanti l’olivo sottrae terreno alla vigna. Le tracce: nei nomi delle campagne…ci vuole pazienza, per indagare sugli antichi catasti… Ci sono terreni che richiamano il termine della “vigna” oggi occupati dall’olivo o da altre colture. In zone meno costiere, però, può accadere anche di vedere una nuova diffusione della vite. Per esempio nella zona della valle Aroscia, oltre Pieve di Teco. Si è nell’area dell’Ormeasco, pregevole dolcetto ligure dalle caratteristiche specifiche. Infatti, anche se il clima di quei territori quasi montani non è sempre benevolo, si registra uno sviluppo vitivinicolo nel corso del XVII secolo. Nel 1626 sono segnalati vigneti nella località Glori di Rezzo. Nel 1689 la Comunità di Rezzo vigilava sulla vendemmia. La vite era spesso piantata assieme ad altre colture, come il fico.

Il Seicento: la vite resiste all’olivo Durante il XVII secolo l’olivo trova sempre nuovo spazio. La vite, invece, viene sempre più limitata. Si mantiene una certa attenzione alla qualità. Inoltre, in seguito ai continui arrivi di vitigni mediterranei, le varietà aumentano e si mescolano. Nel 1639 si rivedono le norme genovesi sulla vendita del vino di Stato. Bartolomeo Paschetti scrive molto del vino ligure. Parla di “bianchi e sottili”, poco nutrienti, ma leggeri e piacevoli, soprattutto d’estate. Come non pensare agli odierni vermentino e pigato ? Sempre secondo il Paschetti vi sono tre tipi di vini liguri: piccoli, mediocri e grandi. I piccoli sono, purtroppo, diremmo noi, i più diffusi. Paragonabili a certi nostralini attuali delle Riviere, erano “bruschi ed acerbi”, vino da giovani, da dieta ferrea, da cibo leggero ed estivo. I vini mediocri possono avvicinarsi ai grandi, ma anche agli estivi. Però ci sono i grandi, che salvano l’onore: ancora “i Moscatelli di Tabbia, gli Amabili, e i Razzesi delle Cinque terre”. Ancora il moscatello, gli Amabili (ovvero lo Schiacchetrà) ed il Rossese (ma quello delle Cinque Terre, che è bianco e non rosso come quello di Ponente). Vini dolci e soavi. Come i grandi francesi ed italiani di oggi, sono destinati perlopiù all’esportazione, verso Roma o verso la Germania e il Nordeuropa. Le opinioni dell’erudito ventimigliese Angelico Aprosio (1607-1681) “Buon pro le faccia”…così l’amico Jacopo Lapi scriveva nel 1662 allo studioso ventimigliese Angelico Aprosio. Il quale aveva parlato ai suo corrispondenti della bella vita del Ponente ligure, ove si mangiano buone trote e si beve del buon vino. Anche l’Aprosio parla del moscatello di Taggia, come di vino “apiano” (dolce come il miele delle api). In più rivela che il moscatello, ancora più buono, si trova a Ventimiglia. Vino celebre e prezioso, soave e delicato, migliore degli Amabili e dei Rossesi delle Cinque Terre. Le opinioni dell’Aprosio, come era nel gusto barocco, raggiungono espressioni eccessive e complesse nel descrivere questo vino, che appare quindi come un valore assoluto.

Il XVIII secolo: crisi e conferme I furti d’uva aumentavano e così anche i danni prodotti dai volatili. L’olivo aveva ormai preso piede quasi ovunque. Non si aspetta più la piena maturazione delle uve e così ne risulta un vino di bassa gradazione, di gusto non pieno. Da un lato, si dice: “i contadini amano talmente la vigna, che pare non possano starne senza”. Ma poi vendemmiano prima del tempo, per la ricerca di guadagno. Sovente ha bisogno di “tagli” con vini esteri, abbondantemente importati e comunque bevuti anche come vini più pregiati dei locali. Spagna e Francia meridionale sono i mercati ove ci si rivolge. Viticoltura ligure in età napoleonica Anche il vino è protagonista nel riordino amministrativo napoleonico. Nei primi anni dell’Ottocento, i grandi prefetti del Ponente ligure, Chabrol a Savona e Du Bouchage a Nizza, si preoccupano delle statistiche produttive, commerciali e sociali del territorio. Chabrol ci ha lasciato una fotografia completa del mondo ligure-piemontese dei suoi tempi. Assieme agli studiosi del tempo si preoccupa del miglioramento della viticoltura. La Liguria appartiene all’Impero Francese dal 1805. Il nuovo governo importa nuovi vitigni dalla Francia, allo scopo di migliorare la qualità: mentre in Provenza ed in Spagna la viticoltura aveva grande sviluppo, in Liguria era irrimediabilmente contrastata dallo sviluppo dell’oliveto.

Per i territori di Porto Maurizio e Santo Stefano al Mare, più vicini a Sanremo, Chabrol descrive tecniche colturali e di trattamento del prodotto. Fondamentale è la citazione dell’esistenza di “venti specie d’uva”, che si mescolano per fare il vino: ecco la tradizione del vignaiolo ligure.

Si ritrovano già ben definiti alcuni vitigni delle DOC attuali: fra i più produttivi si cita il rossese ed i dolcetti. Ed il vino migliore si poteva dare con il vermentino, il rossese, il pisano (altro nome del rossese di Albenga) oltre al barbarossa, vitigno ancora coltivato nelle campagne liguri. Vino e vitigni ottocenteschi Notizie sempre più chiare sul vino ottocentesco. Spicca Giorgio Gallesio, che pubblicava interessantissime dispense legate ai singoli vitigni. Sono ormai affermati il vermentino ed il rossese. Di quest’ultimo si valuta però la pruduzione delle Cinque Terre. Poi si considerano tanti altri vitigni diffusi nel Savonese ed ancora più a Ponente, tra le quali varietà tuttora diffuse o comunque già presenti nella vinificazione tradizionale. Si parla della Barbarossa, di origine toscana, oppure dell’uva Crovino o Trinchera di Nizza, che, quale uva nera, si usava per correggere i vini bianchi. Altre notizie riguardano i metodi per vinificare e le decadenze commerciali dei vini liguri, a confronto con la concorrenza francese e spagnola e nella concorrente espansione dell’olivicoltura.

Più defilata la posizione di Agostino Bianchi, il quale, nel primo Ottocento, abitando a Diano Castello, cita soprattutto il valore del vino della sua terra d’origine. Le sue osservazioni storiche sul favore goduto anche in Liguria dal vino francese a partire dal XVIII secolo sono molto acute. E così anche la citazione degli altri vini importati. Dei vitigni apprezzati nel Ponente ligure ricorda il moscatello, il nebbiolo ed il dolcetto “detto ormeasco”, nonché il Madera. Gli ultimi due sono ancora ben presenti in provincia di Imperia. L’ormeasco è anzi riconosciuto a livello di DOC. La produzione nell’Ottocento Per l’Ottocento i documenti parlano chiaro. Si viene a sapere facilmente cosa e come si produceva a Sanremo. E quali vini si vendevano e si importavano in Liguria di Ponente.

Ma ci sono anche i momenti di crisi, se non di blocco, a causa di devastanti malattie. Si sono distrutti antichi vigneti. Spesso la vigna è ripartita con l’innesto della vite americana. Molto è cambiato, tra XIX e XX secolo.

Gastronomia ligure